LA STORIA DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE DI AGOSTINI MORENO
LA SECONDA GUERRA MONDIALE
NELLA VALLE DEL SERCHIO
Ricerca fatta da vari articoli sul giornale paesano “Terra Lontana” dal 1984 al 1988 di Moreno Agostini
Alla fine dell'estate 1944 la media e alta Valle del Serchio era zeppa di gente. Per tutta l'estate, a causa di bombardamenti e delle deportazioni, chi poteva vi aveva trovato rifugio, considerato che a parte alcuni mitragliamenti ai treni (a Ghivizzano uno fermo nella stazione subì uno dei primi mitragliamenti aerei che si verificarono nella Valle) e lanci di bombe sulla linea ferroviaria, la situazione era abbastanza tranquilla. Vi erano zone calde dove operavano gruppi partigiani (nei monti di Coreglia e di Bagni di Lucca operava la formazione di « Pippo », nella Pania il « Gruppo Valanga » e un po' in tutte le zone di montagna operavano gruppi) ma in 'complesso per chi veniva da città come Pisa, Livorno e Viareggio martoriate da continui e massicci bombardamenti aerei era un'oasi di pace dove si pensava che la guerra sarebbe passata alla larga. Questa convinzione non era condivisa da chi aveva una certa esperienza in materia. Tra l'altro erano in corso 'lavori di fortificazione all'altezza di Anchiano (bunker e sbarramenti anticarro) e postazioni mimetizzate per cannoni a Piano di Coreglia, lungo il corso dell'Ania e di Rio Secco. Su queste posizioni i tedeschi intendevano trascorrere l'inverno 1944-45; poi l'intera « linea Gotica » costruita, con « volontari » e prigionieri, che partiva dal Cinquale e toccava Anchiano arrivando all'Adriatico; in tutta la sua estensione non mosse all'urto degli alleati e il fronte si fermò alcuni chilometri più avanti. Per chi si era rifugiato nella Valle con speranza di evitare i drammi del passaggio della guerra fu deluso. Fino all'estate '44 oltre ai mitragliamenti di aerei alleati e il bombardamento di Castelnuovo e qualche bomba qua e là (due a Piano di Coreglia a pochi metri dalla ferrovia) e la caduta di aerei tedeschi e alleati (nel comune di Coreglia vi cadde un aereo tedesco e uno alleato: il primo cadde nella montagna, vi furono dei morti, le autorità tedesche venute sul posto ordinarono delle bare al falegname Servi Giulio di Coreglia, dopo mesi ancora non le avevano pagate, il podestà fece solleciti e per molto prosegui a sollecitare, si era ancora in periodo che si poteva dialogare; il secondo cadde nella spiaggia di fronte a Ghivizzano: era un caccia inglese: il pilota, tale Spencer, fu raccolto ferito gravemente, essendo cattolico, domandò di un sacerdote, accorse allora don Amedeo Tofani che reggeva la Parrocchia di Ghivizzano, gli amministrò l’Estrema Unzione con i conforti religiosi, mori con la foto dei familiari in mano nell’infermeria della “Metallurgica”. Fu sepolto nel cimitero di Loppia. Ma con l’avvicinarsi del fronte la situazione cambiò: fino allora i gruppi partigiani avevano operato in zone abbastanza limitate, vi era stato nella media valle l’attacco al ponte di Campia dove morirono alcuni tedeschi, vere e proprie battaglie nella valle della Lima e tentativi per far saltare ponti in Garfagnana e i tedeschi avevano fatto rastrellamenti di uomini da deportare in Germania, fucilato partigiani caduti nelle loro mani a Fornoli, valle della Fegana, Fabbriche di Vallico, Lucignana e in tante altre zone. uno lo impiccarono a un albero con il filo di ferro a Montefegatesi; nonostante tutto questo si era ancora a operazioni che lasciavano spazio alla speranza che tutto passasse senza altri gravi tragedie. Gli alleati si avvicinavano. Nella Valle i partigiani cominciarono ad intensificare la loro attività di disturbo, i tedeschi si impegnarono per rendere più sicura la valle con attacchi ai gruppi partigiani (il 29 agosto più di duemila attaccarono il « Gruppo Valanga » che era composto da una quarantina di partigiani: nonostante che fossero in pochi i partigiani accettarono battaglia per evitare rappresaglia contro la popolazione, il giorno prima avevano ucciso un sergente tedesco, in diciannove morirono insieme al comandante Leandro Puccetti di Gallicano). Il 5 settembre gli alleati liberarono Lucca, la notizia si diffuse come un baleno nella valle portando speranza che tutto si sarebbe risolto rapidamente ma invece cominciarono giorni di lutti e paura. Via via che i tedeschi si ritiravano rastrellavano uomini, depredavano la gente portando via bestiame, foraggi e quant'altro di valido trovavano e facendo saltare i ponti sul Serchio: per ultimo quello di Gallicano il 29 settembre, contemporaneamente alla polveriera, e il 4 ottobre quello di Campia che poi sarebbe rimasto in terra di nessuno. Gli alleati lentamente avanzavano nella valle via via che risalivano il corso del Serchio cannoneggiavano senza economia i paesi mietendo vittime: a Ghivizzano una granata esplosa in piazza uccise due tedeschi, furono sepolti sul posto, a Piano dì Coreglia altre cannonate uccisero due donne intente a raccogliere castagne. Intanto il 28 settembre i partigiani occuparono Coreglia, vi erano solo due tedeschi li lasciarono andare via. Dopo alcune ore con un cannone piazzato al Quercia i tedeschi cannoneggiarono il paese zeppo di gente vi fu solo una donna ferita. Il 5 ottobre 1944, dopo giorni di paure, angoscia e disagi Ghivizzano fu occupata da truppe brasiliane. I tedeschi se ne erano andati giorni prima, di gente in paese ve ne era pochissima: tutti avevano ritenuto più prudente aspettare che passasse la bufera stando rifugiati in metati e capanne su per i monti od ospiti da amici o conoscenti a Gromignana o Lucignana. Il giorno dopo i soldati brasiliani occuparono Coreglia, poi Fornaci nei giorni successivi Gallicano, Barga: in questi ultimi due le cose non andarono bene: dopo una mezz'ora che erano arrivati i brasiliani, i tedeschi cannoneggiarono i paesi, la gioia della liberazione svanì di fronte a quattro morti a Gallicano e tre a Barga, con queste cannonate cominciò lo stillicidio che sarebbe durato fino all'aprile 1945. Barga era stata occupata ufficialmente due giorni prima dai partigiani. Nei giorni successivi i brasiliani con varie scaramucce, operazioni di pattuglia e l'occupazione di Sommocolonia il 24 Trassilico il 25 e Calomini il 29, delinearono quello che sarebbe stato, con poche varianti, la linea avanzata degli alleati in Vai di Serchio: Calomini, Gallicano, Mologno Arsenale, lato sinistro della Corsonna, Sommocolonia. In campo opposto, soldati delle repubbliche di Salò, che nella zona centrale erano attestati sulla Pania, Montaltissimo, Campo Piattone, greto del Serchio, Treppignana,. Monte Nudo, Monte Romicchio. Così Castelvecchio Pascoli, Campia, La Barca e Cascio si trovarono in mezzo ai due schieramenti e divennero terra di nessuno con conseguenze disastrose per le popolazioni che insieme alle altre di quella zona della Val di Serchio vissero le prime esperienze di una situazione che sarebbe durata per molti mesi: i tedeschi con le loro batterie tenevano nell'incubo gli abitanti fino a Piano di Coreglia, mentre gli alleati, che oltre ai cannoni avevano il dominio del cielo facevano il resto.
Autore della storia Agostini Moreno |
Nell’autunno 1944 dopo mesi che la gente della Valle del Cerchio attendeva che la guerra passasse col minor danno possibile l’imprevisto arresto degli eserciti belligeranti sul confine storico della Garfagnana(Pania, Montaltissimo, Campo, Fiattone, greto del Cerchio, Trevignano, monte Nuda e Monte Rosicchia) fece comprendere che la guerra per la Valle del Cerchio non sarebbe finita molto presto.
I due schieramenti (da un a parte tedeschi e soldati italiani della repubblica di Salò e dall’altra, fino ai primi di novembre, brasiliani in linea, inglesi con batterie a Ponte all’Ania, Piano di Coreglia e Ghivizzano, genieri statunitensi nelle retrovie e partigiani in linea e in zona occupata dai tedeschi e repubblichini) saggiavano con pattuglie le posizioni avversarie in prima linea e con i cannoni martellavano anche le retrovie. Gli alleati fino a Pontecosi e i tedeschi e i repubblichini fino a Piano di Coreglia(Ghivizzano era fuori dal tiro, soltanto alcune cannonate giunsero fino in Camparlese)
I primi di novembre i brasiliani s ne andarono furono sostituiti dai soldati di colore americani della 92° divisione “Buffalo” in campo opposto intanto erano giunti gli alpini della divisione “Monterosa” che si erano schierato nella parte centrale del fronte.
I “Buffalo” appena arrivati fecero il 4 novembre il primo assaggio fra Grottorotondo e Rocchette, nella zona sopra Brucciano, con successo iniziale, poi cominciò a piovere e la guerra andò avanti con operazioni di pattuglia e cannoneggiamenti.
Anche i civili dettero il loro contributo di disagi, di danni e di vite: a Cascio un uomo rimase ucciso in un improvvisa sparatoria fra pattuglie, a Castelvecchio Pascoli un altro, aveva 73 anni mori colpito da un proiettile di mitraglia, a Barga perirono per cannoneggiamenti due uomini e una donna, a Eglio una scheggia di granata uccise il 7 novembre sulla porta di casa Alfezio Giannotti, autore di poesie ma più noto al pubblico per i suoi scritti sulle leggende garfagnine; si firmava “il Grillorosso”.
Il 15 novembre il cannoneggiamento intenso nella zona di Eglio e Sassi indicò che i “Buffalo” si stavano preparando per un offensiva in grande stile. Una granata esplose in una casa dove avevano trovato rifugio suore e bambini di un istituto francescano: quattordici furono i morti. Il cannoneggiamento cominciò il giorno seguente; gli americani attaccarono puntando su Eglio e Sassi. Se l’operazione riusciva la via per Castelnuovo era aperta(contemporaneamente un gruppo di partigiani collaborò attaccando da altre posizioni).
L’offensiva prosegui per tutto il giorno con fasi alterne poi i Buffalo lentamente avanzarono e la sera del giorno dopo erano vicini a Eglio. Sembrava che tutto dovesse andare in porto, ma il quinto giorno gli alleati vennero ricacciati sulle vecchie posizioni. Nella zona in novembre vi furono altri tentativi di sfondamento, con perdite umane considerevoli da entrambe le parti. Anche le operazioni partigiane furono numerose. Il 27 gli americani e i partigiani tentarono di occupare Lama da dove i tedeschi dominavano Barga. Fu un susseguirsi di cannonate e un crepitare di fucileria, ma i tedeschi tennero il possesso della zona che era di massima importanza strategica. Falliti questi tentativi, fino a Natale non vi furono operazioni di rilievo. Per le popolazioni, la situazione era tuttavia sempre più precaria: cannoneggiamenti tutti i giorni: gli alleati martellavano giorno e notte dalla linea del fronte fin sopra Castelnuovo, i tedeschi e i repubblichini erano più parsimoniosi, ma Barga, la passerella sul Serchio e Bolognana e altre zone strategicamente importanti avevano la loro reazione giornaliera e ogni tanto cannonate fin giù in Piano di Coreglia.
La gente dormiva nelle cantine limitando gli spostamenti o facendoli nei momenti più propizi. Nella zona sotto il controllo alleato la popolazione si accorta che quando era in volo il ricognitore (un piccolo aereo che aveva una pista d’atterraggio a Ghivizzano) repubblichini e tedeschi per non venire localizzati cessavano di sparare. Perciò: finché il ricognitore era in volo di facevano i lavori all’aperto, in fretta, e si cessavano quando l’aereo rientrava. Tali accorgimenti avevano una certa validità ma non cambiavano niente della drammatica situazione. La gente continuava a morire e i paesi si sgretolavano sotto le granate e le bombe. In particolare quelli delle zone fra i due schieramenti o sotto il controllo dei tedeschi e dei repubblichini come Perpoli, Fiattone, Cascio, Brucciano, quest’ultimo già parzialmente bruciato e i paesi dietro le linee, come c
Castelnuovo che a fine guerra era un mucchio di macerie. Vi era poi il problema delle popolazioni sfollate dalle zone dove vi erano assestati gli schieramenti che si erano portati dietro solo ciò che erano riusciti a caricarsi sulle spalle. Questi sfollati un tetto più o meno confortevole lo avevano trovato, ma mancavano di tutto.
Dopo i primi giorni, ripresero perciò a tornare alle loro case per prendere ciò che vi avevano lasciato. Questi spostamenti a molti costarono la vita, mentre altri divennero dei veri esperti che si infiltravano fra i due schieramenti, rischiando ogni volta la vita.
Nello Venturi di Campo in proposito ci ha raccontato: “ero sfollato a Mologno da dove le pattuglie americane salivano fino a Cascio. Quando avevo bisogno di raggiungere la mia casa, che era in zona di nessuno, mi univo a loro. Facevo un carico di fieno o di altro e me ne tornavo via. Non sempre le cose andavano bene; a volte eravamo accolti a fucilate. Un giorno che tornavo indietro con un carico di fieno sulle spalle sentii qualcuno che mi stava tirando il carico: mi voltai, erano i repubblichini. Cercai di convincerli a lasciarmi andare, ma non ci fu nulla da fare: mi avevano visto arrivare con gli americani e mi portarono a Monte Perpoli dove mi interrogarono; poi a Filicaia, dove riuscii a fuggire”
I primi giorni di dicembre tra i soldati americano ci fu un insolito movimento, spostamenti di compagnie e di mezzi di artiglieria in zone che col fronte non avevano nulla a che vedere: i tedeschi avevano tentato una infiltrazione nella zona di Tereglio. Tutto però si rivolse in niente. Ma alcuni giorni dopo, per natale, le cose dicevano andare ben diversamente. Il Natale 1944 in Valle del Cerchio fu un giorno abbastanza tranquillo. Sull’uno e l’altro fronte furono celebrate funzioni religiose, i tedeschi addobbarono alberi di Natale, i repubblichini, oltre al rancio speciale, ebbero un pacco natalizio, e molti fra i vari doni trovarono una “Divina Commedia” Ahi americano assistettero a Ponte all'Ania, alla proiezione di un film comico.
Fu un Natale tranquillo, ma la quiete era solo apparente.
I tedeschi e i soldati di Graziani stavano preparando in sordina un attacco in grande stile. Alle truppe in linea si aggiunsero due battaglioni speciali tedeschi arrivati dall’Abetone e una compagnia della divisione “Italia”.
Nella notte i tedeschi lasciarono in silenzio le linee; un gruppo aggirandole, puntò si Tiglio, un altro su Sommocolonia dove all’alba del 26 dicembre, dopo l’accerchiamento, ebbe inizio una cruente battaglia che si risolse nel giro di poche ore, a favore dei tedeschi (gli americani iniziarono a cannoneggiare il paese quando ancora i loro soldati e i partigiani vi stavano combattendo). Contemporaneamente tutto il fronte si mise in movimento: da Treppignana, repubblichini e tedeschi puntarono su Castelvecchio Pascoli; da Fiattone, Campo a Monte Altissimo su Gallicano, Calomini e Vergemoli.
A Sommocolonia, dove l’offensiva dei tedeschi nel giro di poche ore mise in crisi l’intero schieramento alleato, vi erano una quarantina di buffalo e circa venticinque partigiani.
Su quella battaglia, ecco la testimonianza del partigiano Ambrogio Corneli, pubblicata da Bruno Sereni nel suo libro “La guerra a Barga”, appena giorno, (26 mattina) saranno state le sette e mezzo, ad un tratto sul paese cadde una gragnuola di colpi di mortaio e contemporaneamente il campo minato a cento metri dalla scuola elementare verso la strada di Lama, saltò in aria.
Durante la notte i tedeschi in silenzio avevano circondato a ferro di cavallo il paese, rimanendo ancora libera la mulattiera che scende verso l’Oratorio di S. Rocchino e di lì a Catagnana.
I nostri compagni che si trovavano sull’estremità del caposaldo,
dove adesso c’è il monumentino, impugnarono le mitragliere, inchiodarono la prima ondata che si disperse con molte perdite, ma altri tedeschi, che venivano dal cimitero e si erano arrampicati dal Costone di Rio Vallese li presero alle spalle: Italo Casolari, Riccardo Caselli, Giacomo Minelli, Albano Venturelli, Francesco Fontana di Castelvecchio Pascoli , caddero uno dietro l’altro; gli altri riuscirono a ripiegare pur continuando a difendersi.
Si sparava adesso dalle finestre delle case, dietro le porte, appiattiti dietro le cannonate. Ad aggravare lo scompiglio, sul paese cominciarono a cadere dei colpi di cannone tirati dai mezzi cingolati di Barga e dalle batterie di Loppia. Il tenente americano, colpito da una scheggia, non si rialzò più. La stessa fine fece, pochi minuti dopo, il tenente Sommati, anch’egli colpito da una scheggia, mentre si portava a dare aiuto ad un gruppo di tre nostri compagni presi in mezzo. Lo adagiammo nell’andito di una casa, dove morì poco dopo. “Eravamo rimasti in pochi; che non erano stati uccisi o feriti erano riusciti a scappare già da San Rocchino. L’ultima resistenza, alle ore nove, fu fatta in casa Olivieri da un gruppo dei nostri...”. Nel corso della cruenta battaglia un civile affacciatosi alla porta di casa fu ucciso da una raffica di mitra, un’altra raffica sparata all’interno, dalla porta rimasta aperta, uccise un bambino di cinque anni e ne ferì un altro; una cannonata colpi una casa e uccise moglie e marito e tre suoi figli: una bambina di undici anni, un maschietto di sette e uno di soli dodici mesi. Con l’inizio dell’offensiva tutta la valle, dalla linea di combattimento fino a Ghivizzano, fu investita da un continuo e massiccio cannoneggiamento, che mise in apprensione le popolazioni cui si aggiunsero gli incessanti spari di fucileria e di mitragliatrice su tutto l’arco del fronte e lo sparare simultaneo dei cannoni alleati. Col passare delle ore fu la paura: nei paesi più vicini alla linea del fuoco, in particolare a Barga, la gente fuggì o si preparò a farlo.
Infatti i tedeschi, occupata Sommocolonia, proseguirono l’avanzamento verso Barga e Tiglio; i repubblichini a combattere nella zona di Calomini e Vergemoli, dove per la resistenza dei partigiani e degli uomini della “Buffalo”, non riuscirono a fare molti progressi.
In breve tempo per le strade si formò un’ininterrotta colonna di gente che fuggiva spaventata con fagotti e carretti verso luoghi più tranquilli. Questa angosciosa fuga, per molti finì in tragedia perché le cannonate martellavano prevalentemente le strade: alle Palmette, fra Barga e Fornaci, una decina di civili morirono dilaniati dalle esplosioni; a Piano di Coreglia alcuni fuggiaschi spaventati dalle cannonate in arrivo chiesero rifugio in una casa.
I proprietari, due donne e un uomo, che erano chiusi in cantina, salirono per aprire, ma appena la porta fu spalancata, una granata esplose nella strada uccidendo una donna e ferendo un’altra e l’uomo; cinque le vittime tra i fuggiaschi che avevano chiesto rifugio. Intanto i tedeschi continuavano con l’avanzata sulla riva sinistra del Serchio puntando su Tiglio, Filecchio, Barga e Fornaci; repubblichini combattevano sulla riva opposta attorno a Vergemoli, senza però ottenere progressi.
Ebbero la meglio, solo perché gli alleati, temendo di rimare chiusi in una sacca si ritirarono.
Nel pomeriggio, attorno alle 16, dopo un intenso cannoneggiamento, i tedeschi arrivarono a Tiglio dove ingaggiarono battaglia con un gruppo di partigiani; perirono alcuni tedeschi e un partigiano. Intanto i civili continuavano a fuggire, e a morire un po' ovunque: a Filecchio, a Barga, le batterie piazzate a Loppia furono portate oltre Calavorno. Nella zona rimasero solo alcuni carri armati; la popolazione abbandonò anche il fondo valle. Arrivò la notte e i cannoni di Ponte all’Ania vennero trasferiti in tutta fretta, mentre montagne di munizioni furono abbandonate assieme ai cannoni di Piano di Coreglia.
A mezzanotte i carri armati si ritirarono sulla strada che conduce a Coreglia, mimetizzandosi dietro le case; la passerella sul Serchio, a Bolognana, è fatta saltare dagli ultimo “Buffalo” in ritirata. Per le strade civili che fuggono, altri chiusi nelle cantine in giacigli di fortuna alla ricerca di un po' di riposo che le esplosioni e l’angoscia tengono lontano.
Alla 4 del mattino del 27 dicembre arrivano a Coreglia soldati indiani che approntano una linea offensiva all’estremità del paese, sulla sinistra del torrente Ania, mentre gli ultimi soldati americani si ritirano su Bagni di Lucca. Alle 7 i tedeschi entrano in Barga e alcune ore dopo a Fornaci senza incontrare resistenza. La linea avanzata dagli alleati è a Piano di Coreglia, tenuta da soldati indiani, e a Filecchio. Sulla destra dell’Ania vi sono i tedeschi. Le sparatorie, invece che in Lama, avvengono sulla sponda dell’Ania: un civile muore, alcuni uomini vengono presi dai tedeschi. Alle 10 i repubblichini arrivano a Gallicano rimanendovi un paio d’ore, il tempo per piazzare alcune mine e ritirarsi sulla costa sovrastante. L’offensiva nazifascista aveva avuto successo; nel giro di trenta ore, con circa cinquemila uomini, senza mezzi corazzati, senza aerei, erano riusciti a fare indietreggiare gli americani di quasi dieci chilometri.
Ma il pomeriggio del 7 gli alleati iniziarono la controffensiva con incursioni aeree; da Fornaci fino all’alta Garfagnana è un carosello di aerei che bombardano e mitragliano strade, pesi e case isolate; ai morti dei giorni precedenti se ne aggiungono altri: a Gallicano una bomba cade su una casa e uccide sedici civili, a Barga morti, feriti e enormi distruzioni. Il carosello continua fino a sera, poi inizia un intenso cannoneggiamento che dura tutta la notte. Il 28 dicembre nuove incursioni aeree alleate; una bomba polverizza la chiesa di Sommocolonia; fra i civili ancora morti e feriti. A Palleroso una bomba esplode in una casa lasciando intatti solo i muri perimetrali; la proprietaria, che aveva trovato rifugio sotto l’ arco della porta, rimane incolume. Anche a Palleroso una donna che si era rifugiata in cantina, rimane uccisa da una pallottola di mitragliatrice che la colpisce dopo avere attraversato il tetto e il pavimento.
La controffensiva ha buon esito e i tedeschi cominciano a ritirarsi; Gli Indiani riprendono Fornaci e Gallicano e nella notte Barga; il giorno dopo Sommocolonia, dove quattro “bufffalo” avevano trascorso quattro giorni in una soffitta, mentre il piano sottostante era occupato dai tedeschi. Gli alleati tornano sulle vecchie posizioni, il fronte si stabilisce nuovamente, ma la radio fascista, che aveva dato grande rilievo all’offensiva tedesca, trasmette ancora che “l’avanzata continua”.
Trascorsi i quattro giorni della battaglia di Natale (26-29 dicembre 1944) in cui i tedeschi e gli italiani della repubblica di Salò con un attacco portato avanti con decisione erano riusciti a giungere fino alle sponde del torrente Ania occupando Barga, Gallicano e Fornaci: una occupazione simbolica perché vi giunsero e vi rimasero poche ore. Più non avrebbero potuto rimanerci perché partiti dalle loro posizioni con pochi muli carichi di rifornimenti e con l’equipaggiamento c he potevano portare in spalla: senza prospettive di avere altri mezzi di trasporto in avanti, l’occupazione dei paesi poteva durare finché quell’esercito di circa cinquemila uomini nella maggioranza sfiduciati senza autonomia (resistenza fisica e sufficienti armi per attaccare e per difendersi). Proseguire l’avanzata anche se i soldati indiani non fossero intervenuti decisi facendo barriere sulle sponde del torrente Ania e poi andando al contrattacco, li avrebbero portati al di là della protezione delle loro artiglierie che mai erano riuscite a colpire bersagli più in giù di Ghivizzano.
Fino a Pedona avevano avuto successo perché la manovra di aggiramento fatta in zona di montagna dove vi erano poche postazioni di difesa aveva messo paura di rimanere accerchiati i solfati di colore americani che fuggirono senza porsi problemi di arginare quella mossa; anche in questo caso, certamente, gli alleati adottarono la politica di sprecare armi ma di salvare vite umane.
Quest’offensiva, nel quadro generale della guerra che si stava combattendo in tutta Europa, era stata di scarsa importanza anche se non fu ignorata dalla stampa internazionale. Di poca importanza sotto l’aspetto militare, ma per le popolazioni che si erano trovate nel bel mezzo delle battaglie terrestri e aeree e sotto i massicci cannoneggiamenti era stata una vera e propria tragedia che ancora dopo vari giorni si mostrava col suo aspetto più drammatico, con i morti che venivano estratti dalle macerie dei paesi semi distrutti e che non sempre era possibile seppellire nei cimiteri, perché irraggiungibili, o perchè troppo pericolosi con le cannonate e mitragliamenti. Quanto fu violenta la reazione alleata si può comprendere dalle azioni aeree fatte in quei giorni: gli americani parlano di 4000(quattromila) voli nei giorni 27-28-29 sul cielo della Garfagnana e Radio Londra di 1500 giornalieri. L’arrivo dei soldati indiani costituì una nuova, singolare esperienza per le popolazioni: alcuni, i reparti motorizzati, alti con barba e capelli lunghi e con turbante in testa, uno sguardo che non era facile a comprendere e che metteva soggezione, con carnagione leggermente olivastra (ancora oggi le donne li ricordano e li definiscono belli); altri di statura normale, molto olivastri, nemici della peluria, tanto che ogni giorno si radevano oltre che il viso dotto le ascelle, pensiamo, anche in altra parte del corpo.
Dopo aver ricacciato i tedeschi sulle vecchie posizioni, rimasero in Val di Serchio per una quindicina di giorni. S’incontrarono con i brasiliani, che si comportavano educatamente e prevalentemente erano figli o nipoti di emigranti italiani e i soldati di colore americani che fondamentalmente non erano cattivi, anche se avevano un po' il vizio di bere (da sobri erano grandi amici dei ragazzi ed educati Don Giovanni, ma quando avevano alzato il gomito non davano pace alle donne pur rimanendo nel lite dell’insistere e spesso litigavano fra loro giungendo anche a sparatorie. A Barga, la vigilia di Natale, un ragazzo che si trovò in mezzo rimase ucciso da una fucilata, vi era stato un rapporto spontaneo di cordialità, con gli indiani, per motivi culturali e religiosi, vi fu sopra tutto curiosità per capire certi loro atteggiamenti: molti rifiutavano alcolici facendo intendere pubblicamente che la loro religione lo proibiva, ma poi da soli si presentavano nelle case a chiederne e per giustificarsi dicevano d’essere ammalati o di avere bisogno di un bicchiere di vino.
Se in casa vedevano mangiare carne chiedevano: “mangiare vacca?”, a risposta affermativa fuggivano e non tornavano più.
La loro alimentazione era fatta esclusivamente da focaccine di grano cotte su lastre di ferro, condite con una salsa piccante di lenticchie e zenzero, alla quale qualche volta aggiungevano un po' di carne di pecora. Le pecore le uccidevano sul posto ed era quasi una cerimonia; prendevano la pecora in quattro soldati, la portavano in un prato, la legavano con una corda per le corna, un soldato teneva tesa la corda per obbligare l’animale a tenere la testa rivolta alla Mecca, due la trattenevano per i fianchi posteriori l’ultimo con una grossa scimitarra la decapitava.
Ancora calda gli toglievano gli intestini, cuore, fegato e polmone e poi insieme alla testa li seppellivano.
La gente in quei giorni aveva problemi alimentari perciò appena i soldati se ne erano andati recuperavamo le parti commestibili.
Un giorno gli indiani se ne accorsero, andarono su tutte le furie, fecero capire che la loro religione proibiva che si mangiasse ciò che loro seppellivano: da allora nessuno più riuscì a sapere dove avveniva la macellazione, ma ogni mattino potevano assistere a una cerimonia tanto semplice ma un po' imbarazzante e incomprensibile: all’inizio di ogni giorno, nudi, uscivano all’aperto anche se era gennaio, con un bicchiere pieno di acqua in mano, all’aperto, lentamente si vuotavano l’acqua sul capo.
Il loro comportamento per la gente della Valle del Serchio era incomprensibile, il loro alimento era povero, ma ha chiunque chi si avvicinata veniva offerta una focaccina, piegata in due, condita con salsa.
TESTIMONIANZA
Don Adelmo Tardelli parroco di Palleroso che per tutto il periodo che il fronte rimase fermo in Val di Serchio si trovò a vivere con gli alpini della “Monterosa” che nei dintorni del paese avevano il comando di reggimento e un comando di compagnia, di loro ci ha raccontato:” Alcuni erano di una spiritualità ammirevole, frequentavano i sacramenti; venivano spesso in canonica a parlare delle loro famiglie, delle loro cose, alcuni solo per fare una chiaccherata, altri per sfogarsi, alcuni erano volontari, ma la maggioranza erano forzati”.
Da buon parroco non ci ha voluto dire in che cosa consistevano quegli sfoghi, ma dopo aver detto che il suo rapporto con quei soldati aveva contribuito a creare fra i civili che ancora vivevano in paese e i militari una convivenza accettabile, ha proseguito: “Un giorno un intera compagnia che stava andando in linea al Castelletto: l’incontrai a S. Rocco, nel campo sotto la chiesina (si passava di lì perché era al coperto, più in alto arrivavano le cannonate). Io venivo da dire messa, allora andavo a dirla per le case per la campagna per evitare alla gente di muoversi perché era pericoloso mi chiesero: “Ci benedice, padre?” Risposi: “Non vi do la benedizione, dite l’atto di dolore e io vi do l’assoluzione
come se vi foste confessati perché in questi casi di emergenza non è necessario se in voi vi è il proposito di farlo dopo”.
Tutti i militari si inginocchiarono e dissero l’atto di dolore, io impartii loro l’assoluzione. Alcuni giorni dopo vennero a trovarmi alcuni di loro per chiedermi di dire una messa in linea, diversi erano morti.
Il 13 gennaio 1945 gli indiani se ne andarono, lasciando le vigne prive di pali di sostegno: li avevano bruciati per cuocere focaccine! Ritornarono le truppe americane che appena presa posizione occuparono Molazzana, tenuta dai repubblichini fin dalla battaglia di Natale e continuarono con operazioni di pattuglia
in varie zone del fronte con gran fracasso di fucileria e di cannonate. Dopo lo scacco di Natale, la sera, i centri abitati vicino alle linee venivano rinforzati: ad ogni ingresso venivano piazzati mortai, mitragliatrici e dove possibile, carri armati; ogni notte, sparatorie con proiettili traccianti rossi e azzurri che illuminavano il cielo come uno spettacolo pirotecnico.
Alla fine del mese gli americano occuparono Caprona, il colle dove è la casa di Giovanni Pascoli che fino allora era rimasta in terra di nessuno, e vi si stabilirono. Intanto i civili cominciavano a pagare il loro contributo di sangue: un uomo morì a Barga nell’esplosione di una granata, altri due, in campagna, finirono sopra una mina: uno morì e l’altro rimase ferito; altri morti e feriti un po' ovunque, prevalentemente per esplosioni di granate.
Oltre le linee di combattimento, nella Valle del Serchio sono il controllo dei soldati repubblichini e dei tedeschi le cose andavano peggio. Tutti i giorni erano cannonate a razione più abbondante perché gli alleati non avevano problemi di economia e bombardamenti e mitragliamenti aerei sui paesi e per le campagne, in continuazione nel cielo, se non vi erano squadriglie di aerei, vi era il ricognitore che aveva la pista d’atterraggio a Ghivizzano: volava silenzioso e sembrava innocuo, ma bastava che di lassù vedessero movimenti sospetti che poco dopo arrivavano sul luogo dell’avvenimento caccia-bombardieri e cannonate.
La gente dei paesi più esposti era fuggita per rifugiarsi nelle case, nelle capanne su per i monti. Per questi sfollati era un susseguirsi di giorni di paura e di stenti. Quell’anno i raccolti di castagne e degli altri prodotti della campagna era stato abbondante, ma per i continui prelievi dei soldati e tutti gli sfollati che erano riversati per la montagna da sfamare, anche se il raccolto era stato abbondante, cominciava a scarseggiare.
A gennaio dopo quasi quattro mesi che la guerra era ferma nella Valle, non si era ancora alla fame, ma era un alimentarsi a base di farina dolce e un vivere in ambienti inadeguati in un periodo invernale e con dentro l’angoscia per i continui bombardamenti e sopra tutto con la paura di essere deportati in campi di concentramento tedeschi.
Dopo quattro mesi che la guerra era ferma in Valle di Serchio l’unica tragedia variante era che i paesi maggiormente colpiti dal fuoco erano ridotti a cumuli di macerie e la gente non sperava più di una rapida soluzione del conflitto: era ormai generale convincimento che per tutto l’inverno la guerra sarebbe rimasta in Val di Serchio con i suoi disagi e i suoi lutti che non erano pochi, soprattutto per le popolazioni civili che si trovavano a contatto con la linea di combattimento. Tutti i giorni qualche civile rimaneva dilaniato dalle granate e dalle bombe; quando non avveniva una vera e propria carneficina, come il 13 febbraio 1945 a “Novicchia”
(poche case sulla costa sovrastante Castelnuovo dove la gente si era rifugiata ritenendola zona più sicura, vi aveva costruito anche una galleria nel monte per meglio ripararsi da cannonate e bombardamenti quella galleria divenne la loro tomba: una bomba esplose proprio all’ingresso e uccise trentuno dei trentadue civili che vi si erano rifugiati. Fra le vittime vi fu anche il cappellano di don Raffaello Rossi, che più volte in quei tragici mesi di guerra, sfidando le cannonate e le bombe, aveva provveduto da solo, con un carretto a trasportare i morti al cimitero e dare loro sepoltura e fin che potè celebrò matrimoni nel Duomo di Castelnuovo , erano giorni che ci voleva coraggio per andare a Castelnuovo, lui ne aveva e non era solo perché nel mese di gennaio ne celebrò due nella chiesa da cui si vedeva il cielo perché il tutto se lo erano portato via le cannonate. Don Adelmo Tardelli parroco di Palleroso, quel giorno aveva appuntamento con Don Raffaello Rossi, dovevano andare a battezzare un bambino nato in quei giorni. Appena avvenuta la tragedia corse sul posto, già stavano estraendo i morti don Rossi riuscirono ad estrarlo il giorno dopo.
“Fu trovato -dice Tardelli – in piedi con la schiena appoggiata contro la parete, aveva la testa chinata in avanti e le mani congiunte come se pregasse”
I civili morivano oltre che sotto i bombardamenti e dalle cannonate anche fucilati: a Cogna il primo febbraio ne furono uccisi sei. Don Palmiro Pinagli parroco di Filicaia nel suo diario scrisse di questa fucilazione: “ presso Cogna, proprio sul luogo dove il 28 gennaio fu ucciso dai partigiani un alpino, per ordine del generale Carloni, la mattina del primo febbraio, furono fucilati per rappresaglia dei uomini che da alcuni giorni si trovavano in carcere a Camporgiano dietro varie accuse politiche.
I fucilati sono: Tardelli Adriano-detto baionetta-residente a Capanne di Careggine nato il 19 ottobre 1896.
Esso, padre di numerosa famiglia fu arrestato, secondo il Capitano Gervasini, per aver fatto passare il fronte a molti. Dinanzi alla morte si mostrò sereno. Tra l’altro disse ai compagni: ”Hanno ragione di fucilarmi; noi amiamo la libertà.”
Quindi già avviati per il luogo del supplizio dice al Gervasini: “io perdono”. Talini Agostino, nato e residente a Sillano, della classe 1899. Esso dinanzi al sac. Mentucci don Giuseppe, che cercava di consolarlo, piange.
E’ accusato di essere presidente del C.L.N. del comune di Sillano,
Ferrari Cesare nato a Bagni di San Giuliano (Pisa) 29 – 3- 1903 e residente a Roggio. Raccomanda a don Mentucci di dire alla moglie di avere cura dei bambini e di fare portare il di lui cadavere a Roggio. Ferrari Alfredo, nato a Roggio il 30-4-1906 ed ivi residente. Petrini Amerigo nato a Vagli di Sotto il 26-4-1894 e residente a Roggio, secondo il capitano Gervasini, i primi due
di Roggio avevano ospitato un maggiore inglese; il terzo poi era un autentico bandito. Samassa Giovannni nato a Ravaschetto il 16-7-1898 e residente a Sillano. Egli manda a dire alla moglie che si faccia coraggio e che preghi per lui.
Alla fucilazione di queste povere vittime, dovette assistere anche don Bruno Nobili, per aver detto ai soldati che portavano al supplizio i sei ostaggi: “Guarda che cosa sanno fare i soldati della repubblica!” Don Nobili fu anche brutalmente percosso.
Per tutte le popolazioni, che si trovarono coinvolte in una guerra che mai nessuno avrebbe pensato che si sarebbe fermata a cavallo della media valle e la Garfagnana, furono mesi di sofferenza e lutti, ma, certamente le sofferenze di coloro che passarono sette mesi nella zona occupata dai soldati della repubblica di Salò e dai tedeschi furono al limite della sopportazione umana. Se la gente della media Valle, in zona occupata dagli alleati, aveva un susseguirsi di lutti per cannoneggiamenti e disagi esservi a vivere in zona presidiata da soldati stranieri con le loro esigenze e le loro pretese , ma anche se era drammatica non aveva paragone con quella di coloro che avevano gli stessi problemi e l’aggiunta di più massicci cannoneggiamenti, bombardamenti aerei e mitragliamenti e un esercito che sentiva ostile le popolazioni e pertanto deportava e fucilava i civili che incorrevano, a parer loro, in comportamenti non conformi ai loro ordini e per di più questo esercito non ricevendo sufficienti rifornimenti alimentari doveva vivere depredando quel poco che la gente aveva.
Nonostante tutto questo la gente della Garfagnana riusciva a trovare qualcosa anche per aiutare a sfamare a tutti quei carraresi che ogni giorno arrivavano attraversando le Apuane coperte di neve, a chiedere farina dolce portando in cambio sale estratto dall’acqua di mare.
Castelnuovo e la sia popolazione in quei tragici mesi vissero, pur essendo dietro le linee, giorni drammatici: già il 2 luglio 1944 aveva subito un bombardamento “a tappeto” nella zona della stazione ferroviaria, e fucilazioni per rappresaglia, col fermarsi del fronte nella valle venne a trovarsi a ridosso delle linee di combattimento, col ponte sul Serchio e quello sulla Turrite, a pochi metri dal centro storico, ancora intatti.
Pertanto si trovò ad essere il bersaglio prediletto dai cannoni e dagli aerei alleati, con conseguenze facilmente immaginabili.
Anche se nell’abitato non risiedeva più nessuno, né civili, né militari, tutti i giorni era una pioggia di cannonate e nei giorni di bel tempo anche gli aerei portavano distruzione; ma dei due ponti ne fu colpito soltanto uno e di striscio, mentre l’abitato a fine guerra era pressochè totalmente distrutto. La popolazione si era rifugiata sui monti; molti avevano trovato ricovero nelle gallerie ferroviarie, nelle miniere di lignite e nelle condotte delle centrali elettriche, che furono rifugi sicuri; ma essendo il fronte rimasto fermo per sette mesi, è immaginabile quanti dovettero essere i disagi e le sofferenze.
L’ospedale fu trasferito nella canonica di Antisciana, ma anche qui arrivavano cannonate e bombardamenti aerei, per cui i feriti e gli ammalati più gravi vennero ricoverati in un fienile distante dall’abitato. Nella prima metà di febbraio gli alpini della divisione repubblichina “Monterosa” che erano stati inviati in Val di Serchio alla fine di ottobre 1944, e che avevano tenuto per mesi la linea (Monte Altissimo, Fiattone, greto del Serchio, Treppignana) cominciarono ad andarsene lasciando le posizioni ai bersaglieri della divisione “Italia”.
I nuovi venuti, alcuni arrivati in autocarro ma la maggior parte a piedi attraverso la Cisa innevata, non erano in numero sufficiente a sostituire i “monterossini” perché parte della divisione era rimasta nel Ferrarese; e il “Bergamo” e alcuni reparti minori della divisione “Monterosa” rimasero per completare lo schieramento, il cui comando fu mantenuto dal generale Carloni.
L’organico della “Monterosa” per diserzioni e perdite in combattimento, si erano molto assottigliate, il battaglione “Cadelo” per esempio, non arrivava ad un terzo del numero originario, era partito dalla Germania con 650 uomini, arrivò in Val di Serchio con 450, ne ripartirono soltanto duecento.
Gli americani, che di questi nuovi arrivi erano a perfetta conoscenza, intrapresero contro di essi le solite operazioni “rumorose” consistenti in un grande spreco di granate e di spari di fucileria, più che in reali tentativi di aprire una breccia nello schieramento nemico. Il che avrebbe necessariamente richiesto perdite umane, ma poiché le sorti della guerra si stavano decidendo in altri fronti, gli americani in Val di Serchio rischiavano il meno possibile la vita dei loro uomini e cercavano semmai con espedienti di far sciupare le munizioni ai tedeschi e ai repubblichini, che dai loro osservatori di Lama e Monte Perpoli studiavano ogni mossa per ben impiegare le poche munizioni di cui erano dotati.
Uno di questi espedienti degli americani consisteva nel piazzare, di notte, ben visibili nei prati del fondo valle, carri armati di gomma, mentre con altri autentici scorrazzavano su e giù per la strada per farsi sentire.
All’alba i carri armati veri erano ritirati e lasciavano quelli di gomma. I repubblichini e i tedeschi, alle prime luci, scorgevano lo schieramento di carri armati e cominciavano a cannoneggiare.
Gli americani, per confondere ancor più le idee, oscuravano la valle con fumogeni ; poi si godevano lo spettacolo dopo essersi messi al sicuro.
Nel marzo 1945 erano sei mesi che la guerra era ferma in Val di Serchio. La linea di combattimento con piccole varianti era sulle stesse posizioni dell’ottobre 44. Per la gente proseguivano i disagi, la paura, le cannonate e i bombardamenti aerei.
A Ghivizzano, dove ormai tanti erano certi che i tedeschi e i repubblichini non avevano cannoni con gittata sufficiente per cannoneggiarla, la gente soffriva per ciò che avveniva nella valle, ma non era coinvolta di prima persona sotto l’aspetto più tragico come da Piano di Coreglia in sù dove le cannonate portavano angoscia, paura e morte. Non era coinvolta sotto questo aspetto, ma non vi era molto da godere perché anche qui era un via vai di
truppe con le loro esigenze e giorno e notte si sentivano cannonate in arrivo e partenza perciò per chi aveva un minimo di sensibilità era un susseguirsi di sofferenza.
Nel bel viale che dalla Dezza viene verso il paese, oggi illuminato come il centro di una città anche se ci sono, come allora, prevalentemente prati e campi, da novembre 44 gli americani vi avevano costruito un’improvvisata pista d’atterraggio e decollo per aerei ricognitori. La “cicogna” (un aereo con caratteristiche di aliante che nel cielo volava silenziosa volteggiando di valle in valle come un falco che cerca la preda) per ore sorvegliava le linee di combattimento e su verso l’alta Garfagnana per controllare le prestazioni in linea e le truppe in movimento, scattando fotografie di tutto ciò che poteva interessare ai comandi alleati. Spesso ritornava con qualche buco nelle ali o nella fusoliera procurategli da fucilate o scariche di mitragliatrice.
Questa pista d’atterraggio aveva fatto di Ghivizzano un punto importante per i comandi alleati: qui oltre alle informazioni raccolte dal ricognitore giungevano anche quelle riportate dai piccioni viaggiatori che avevano il punto d’arrivo nella capanna ancora esistente a fianco al centro analisi. Per i ragazzi erano giorni eccitanti: aerei che andavano e venivano, un susseguirsi di arrivi r partenze di soldati brasiliani, inglesi, indiani e americani bianchi e di colore con i quali i ragazzi ben presto riuscivano ad avere rapporti amichevoli; con gli americani di colore che da sobri erano buonaccioni e assi larghi di manica e disponibili a dare cioccolate e sigarette a chi li aiutava a trovare un po' di vino o grappa i rapporti erano ancora più facili anche se, come in ogni rapporto umano, vi era il rovescio della medaglia.
Sono passati i mesi invernali l’aria si addolcisce, nei campi a Ghivizzano tutti possono fare i lavori primaverili, ma dal Rio in su solo qualcuno si azzarda. L’arrivo di cannonate è cosa di tutti i giorni, a Barga ne arrivano 24 giorni su 31. In linea, tutti i giorni sono spari di fucilerie operazioni di pattuglia: la “domenica del corriere” dedica una copertina illustrata ad un audace colpo di mano di bersaglieri della divisione “Italia” nella zona di Gallicano in Garfagnana: un reparto da ricognizione assalta un avamposto nemico, distruggendolo, catturando numerosi prigionieri e consolidando poi la posizione conquistata.
La guerra è alle ultime battute, ma si prosegue a esaltare piccoli o immaginari successi di un esercito in disfacimento. Militari e civili inermi continuano a morire in linea, nei paesi delle retrovie e di fronte al plotone di esecuzione.
A Filicaia nel pomeriggio del 7 marzo furono fucilati tre soldati repubblichini(non sono i primi e ne saranno fucilati altri fino all’ultimo giorno di guerra) perché accusati di diserzione (il maresciallo Giorgio Vetrini, il sergente Verginio Vai e il soldato Nello Simoncelli): fatti sedere su una sedia con le mani legate dietro la schiena, con tre casse davanti a loro furono uccisi perché avevano deciso di abbandonare le armi e tornare a casa quando ormai tutti sapevano che la guerra era alla fine.
A metà marzo 1945 la Germania aveva già tutti e due i piedi nella fossa anche se molti tedeschi speravano ancora nel miracolo dell’arma segreta che il Fuhrer tante volte aveva prospettato; sul fronte ovest le divisioni tedesche dimezzate di uomini, senza mezzi corazzati resistevano nei limiti delle loro possibilità contro ottantacinque divisioni alleate sostenute da nugoli di aerei e carri,
Già dal 7 marzo il Reno era stato varcato a Remagen e da quel giorno la testa di ponte alleata si estendeva sempre più. Sul fronte orientale il divario fra forze tedesche e russe era anche maggiore, ogni resistenza aveva il solo risultato di rallentare un po’ l’avanzata dei russi verso Berlino ma a costo di enormi perdite umane. Tutto questo anche se trapelava in minima parte contribuiva ad abbassare il morale dei militanti tedeschi sul fronte della Val di Serchio dove da mesi si andava avanti con operazioni di modeste dimensioni sul piano militare anche se alla gente del posto sembravano qualcosa di più.
Gli americani non facevano niente per sfondare la linea di difesa tedesca e repubblicana nella Valle del Serchio e su tutta la linea “Gotica”. I comandi alleati avevano già preparato i piani di attacco, ma attendevano condizioni metereologiche ottimali ed avere rafforzato adeguatamente i loro schieramenti per fare un definitivo balzo in avanti, oltre a questo vi era stata una certa polemica sul comportamento dei soldati di colore americani a cui si faceva carico di insuccessi: una polemica che aveva coinvolto un po’ tutta la stampa americana. L’autorevole “Times” parlava di “tendenza a sbandamento” dei soldati e ufficiali della “Buffalo”. Ciò provocò la reazione della stampa negra che aveva corrispondenti i Italia. Denunciando che nei bollettini di guerra che parlavano di soldati bianchi si evitava con cura di usare termini come “sbandamento” e si ricorreva piuttosto a perifrasi come: “le nostre truppe si sono ritirate su posizioni meglio difendibili. Questa polemica sulla stampa americana aveva riscontro nel comportamento dei soldati al fronte: in molti in Val di Serchio ricordano di sparatorie fra soldati bianchi e neri americani che avevano origini in motivi razziali. I comandi tedeschi si attendevano un attacco perciò per avere più libertà d’azione e per rendere più difficile l’infiltrazione di spie imposero lo sfollamento delle popolazioni rimaste nei paesi a ridosso delle proprie linee. Gli alleati avevano pronti i piani d’attacco, ma proseguivano ancora a d andare avanti con operazioni di pattuglia, cannoneggiamenti e bombardamenti aerei che non raggiungevano altro che la completa distruzione dei paesi e aggiungere altre vittime civili alla già lunga lista. Nonostante questo martellare molti parroci della Garfagnana, nella seconda metà di marzo, fecero il giro delle loro parrocchie per benedire le case, per molti fu un giro più lungo del solito perché andarono a benedire le capanne e i metati dove erano rifugiati i loro parrocchiani. Via via che si avvicinava la Pasqua sempre più si diffondevano fra la gente voci che i tedeschi avrebbero nuovamente tentato un’avanzata: queste voci venivano considerate senza fondamento e inattendibili, ma la stessa cosa era successa prima della battaglia di Natale e la gente sapeva che in quell’occasione le “voci” erano diventate realtà. A distanza di quarant'anni potrà sembrare impossibile che le voci che circolavano in zona occupata dagli alleati erano le stesse che passavano di bocca in bocca nella zona sotto i tedeschi e i repubblichini: le due zone erano divise da una linea di combattimento con zone minate, postazioni militari e pattuglie erano continuamente a perlustrare nella fascia di terra tra i due schieramenti: tecnicamente attraversarle sembrava impossibile; in pratica era fattibile. Vi erano molti veri e propri esperti che facevano da guide a chi voleva attraversarle. Non sempre andava bene. Sono molti i morti tra i civili e militari che tentarono l’attraversamento, perché andati a finire in un campo minato o perché visti e presi a fucilate dai soldati.
Mai nessuno riuscirà a dire quanti morirono e a dare un nome a tutti perché molti erano militari che disertavano o sfollati di Pisa, Livorno e Viareggio che erano rimasti intrappolati in Garfagnana dove erano andati a cercare rifugio: se a coloro che caddero nel tentativo di raggiungere la libertà si aggiungono tutti coloro che furono presi poi fucilati o deportati in campi di lavoro dove era facile morire per fame e bombardamenti, il tentativo di dare un nome a tutti diverrebbe ancor più arduo. Morire e sparire, in quei giorni, in Val di Serchio era facile, lo dimostrano i molti resti umani trovati negli anni successivi, casualmente in zone più impensate.
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